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Storia - Sicilia

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Cenni storici sulla Sicilia - La Sicilia e il Folklore


Periodo arabo-bizantino

La dominazione bizantina, durata tre secoli e mezzo, sottopose l'isola, dopo un periodo di divisione del potere civile dal potere militare a un regime di dittatura militare. Tale regime, accompagnato da vessazioni fiscali e burocratiche, provocò un vasto esodo della popolazione delle città nelle campagne, dominate dai latifondi imperiali ed ecclesiastici, e un correlativo grave deterioramento economico, sociale e culturale nei secc. VIII e IX.

Contro la dominazione bizantina si ebbero numerose rivolte, spesso promosse dagli stessi ufficiali imperiali, finché un ufficiale bizantino, per fronteggiare l'imperatore Michele II, ottenne l'intervento in Sicilia di Ziyadat Allah I, emiro degli Aghlabidi d'Africa (827), aprendo così la via alla conquista araba dell'isola, iniziata con l'occupazione di Mazara e conclusa con quella di Taormina (902).

Retta da emiri o valì nominati dagli Aghlabidi d'Africa, con Palermo e non più Siracusa come capitale, la Sicilia ebbe una sorte non dissimile da quella degli altri paesi conquistati dagli Arabi, nel complesso molto più abili, e più popolari, dei Bizantini.

Succeduti in Africa agli Aghlabidi i Fatimidi (910), l'isola divenne praticamente indipendente (anche se con residue zone in mano a Bisanzio) sotto gli emiri Banu Kalb di Palermo (948-1040), che preservarono l'isola da una nuova offensiva bizantina, ne moltiplicarono le risorse economiche con l'introduzione di nuove e pregiate colture, con il frazionamento, nei limiti del possibile, dei latifondi e promossero anche le attività artistiche e intellettuali.

Il regno normanno-svevo
La conquista normanna si compì in un trentennio, dalla presa di Messina (1061) a quella di Enna, Butera e Noto (1091); la resistenza araba fu tenace, specie a Siracusa, difesa dall'emiro Ben Avert.

Ruggero d'Altavilla, dopo la morte del fratello Roberto (1085), solo artefice della conquista, governò col titolo di gran conte di Sicilia e di Calabria dimostrando un largo spirito d'iniziativa e di tolleranza; introdusse l'ordinamento feudale ignoto al paese, ma temperato dal vigore del potere centrale. A lui succedettero i figli Simone (1101-1113) e Ruggero II (1113-1154), che riunì in un unico Stato i domini normanni della penisola e la Sicilia ed ebbe dall'antipapa il titolo di re di Sicilia e di Puglia (1130).

Guglielmo II (1166-1189) continuò la politica antisveva e filopapale di Guglielmo I, ma fallì in alcune imprese militari; morto senza eredi, il regno passò a Enrico VI di Svevia (1194-1197), posato dal 1186 con abilissima mossa diplomatica di Federico Barbarossa a Costanza, sorella di Guglielmo I.

Il duro governo di Enrico VI (1194-1197) rischiò di compromettere la posizione degli Svevi nel regno, che fu salva grazie alla politica dello stesso papa, Innocenzo III, a favore dell'erede di Enrico VI, Federico II (I come re di Sicilia) [1197-1250], che portò il regno di Sicilia all'apogeo della potenza e dello splendore, facendone il centro politico e spirituale del Sacro romano impero e un modello di Stato moderno.

Il periodo aragonese
Nella Sicilia indipendente, sotto gli Aragonesi si accentuò il regime feudale (parlamento con tre bracci: ecclesiastico, militare, demaniale), si appesantì il latifondismo, si ebbe decadenza economica per le continue guerre che si protrassero, coi re successivi, fino a quando Giovanna I d'Angiò rinunciò definitivamente ai diritti sulla Sicilia (1372, pace di Catania).

Alfonso I (V) il Magnanimo, re d'Aragona (1416-1458), concluse vittoriosamente la secolare lotta contro gli Angioini di Napoli riunendo (1442) sotto un'unica corona, anche se con amministrazioni separate, tutto il Mezzogiorno della penisola italiana (Sicilia, Sardegna e regno di Napoli) e assunse per primo il titolo di "rex utriusque Siciliae" (re delle Due Sicilie, peraltro ricomparso nel 1816).

I contadini poterono migliorare le loro condizioni di vita per l'accresciuta produttività della terra, il cui acquisto a enfiteusi o a colonia era solitamente favorito da franchigie di varia natura. Analogamente si ebbe una rinascita anche nelle città, che presero a ripopolarsi e divennero centri attivi di commerci e di traffici con rinomate fiere autorizzate dal sovrano (come quelle di Alcamo, Randazzo, Caltagirone, Tindari). Anche la cultura conobbe una notevole nella seconda metà del XIV sec.

Il vicereame spagnolo
Alla morte dell'aragonese Alfonso I (V) il Magnanimo, la Sicilia si ritrovò inserita nell'ambito della monarchia spagnola con il ruolo di vicereame. Assegnata infatti in unione personale a Giovanni II (1458-1479), re d'Aragona, l'isola divenne una mera dipendenza spagnola.

La dominazione spagnola, che durò ancora oltre due secoli, mostrò chiari segni di crisi (rivolte antispagnole di numerose città siciliane nel XVII sec.) in sincronia con la crisi della stessa monarchia spagnola e finì con la pace di Utrecht (1713).

La restaurazione del regno
Nel 1713, alla conferenza della pace di Utrecht, la Sicilia con titolo e dignità di regno fu assegnata dalle nazioni europee vincitrici nella guerra di Successione spagnola, a Vittorio Amedeo II di Savoia a compenso della sua attiva partecipazione al grande conflitto.

La cessione al duca sabaudo, inizialmente osteggiata dai Siciliani, venne accettata con molta soddisfazione sia dai grandi del regno sia dalle plebi quando all'atto dell'incoronazione Vittorio Amedeo II giurò l'osservanza dei privilegi e il riconoscimento delle immunità, delle esenzioni e degli statuti di cui le città godevano ormai da tempo remotissimo.

Vittorio Amedeo II, con la sapiente collaborazione di eminenti rappresentanti locali, promosse il riordinamento dell'amministrazione e delle finanze, diede nuovo impulso all'università di Catania, fece costruire una flotta mercantile e da guerra per assicurare i collegamenti tra il regno e il ducato di Savoia, ma si tornò comunque a guardare con nostalgia alla Spagna, che nel 1718 occupò l'isola trovando ampi consensi tra i nobili.

Gli Absburgo d'Austria
La dipendenza dei Siciliani dall'imperatore durò sedici anni (1718-1734). l'Austria introdusse in Sicilia un fiscalismo assai più pesante di quello spagnolo, soprattutto per i metodi di esazione. Per di più Siciliani e Austriaci non familiarizzarono mai a causa della lingua di questi ultimi che nell'isola non era capita. Perciò quando Carlo di Borbone, duca di Parma, durante la guerra di Successione polacca escluse gli Austriaci dal Mezzogiorno d'Italia (1734), i Siciliani videro con favore il ritorno del predominio spagnolo.

La Sicilia sotto i Borboni
Sotto Carlo di Borbone (Carlo VII), iniziatore dell'ultima dinastia regnante, la Sicilia con Napoli tornò a essere sostanzialmente una dipendenza spagnola; soltanto nel 1759, la Sicilia e Napoli costituirono due regni completamente autonomi sotto il figlio di Carlo, Ferdinando, che si intitolò IV re di Napoli e III re di Sicilia.

Dalla severa mortificazione delle loro tradizioni autonomistiche i Siciliani, di nuovo governati da un viceré, alimentarono un vivo risentimento.
Il risentimento dei Siciliani si trasformò allora in odio e da quel momento iniziarono le loro aspirazioni separatiste convogliate nelle lotte popolari del Risorgimento italiano (rivoluzione del 1820, domata dal generale Colletta, insurrezione di Palermo nel 1831, rivolte a Catania e a Siracusa nel 1837). Questo si avverò soprattutto nel 1848 quando la Sicilia cacciò i Borboni e donò la reggenza dell'isola a Ruggiero Settimo, capo del governo rivoluzionario.

La Sicilia nello Stato italiano
L'isola entrò nel regno d'Italia animata da fervide speranze di rinnovamento. I sistemi di governo dei nuovi funzionari piemontesi, però, non furono i più adatti alla situazione, anzi essi pretesero di imporre metodi di amministrazione (specialmente fiscali) che erano inadeguati e necessariamente impopolari in Sicilia.

Da qui il cosiddetto "antipiemontesismo" sfociato ben presto nel brigantaggio, nella diffidenza e nell'ostilità delle popolazioni che all'ingiustizia statale cominciarono a preferire la giustizia semplice e ai loro occhi efficace di organizzazioni settarie come la mafia ("l'onorata società" che almeno in quel periodo talvolta tolse al ricco e diede al povero).

Si ebbero così l'insurrezione di Palermo nel 1866, l'eccidio dei contadini di Caltavuturo del 1893, i moti popolari attuati dai fasci dei lavoratori e contro i quali il siciliano Crispi operò una durissima repressione.

L'alba del XX sec. trovò la Sicilia alle prese con quasi tutti i suoi problemi vecchi e nuovi che né i governi della Destra né quelli della Sinistra avevano saputo alleviare. Cominciò allora la grande emigrazione del proletariato siciliano verso le Americhe e verso l'Australia, causa di ulteriore impoverimento delle campagne e dei piccoli centri rurali.


La Sicilia e il Folklore

 Nella sua storia la Sicilia ha avuto ben 13 dominatori e pur trattandosi di dominazioni, venute dall’est e dall’ovest e perfino dal nord, i siciliani non si sono mai fatti assimilare da alcuna di essa mentre hanno accettato da esse apporti culturali, linguistici senza mai perdere il loro tre caratteri distintivi di un popolo, costituiti, come già notò Cicerone nel I° secolo A.C dall’intelligenza, dalla diffidenza e dall’umorismo. E’ molto difficile analizzare i balli tradizionali siciliani sotto il profilo storico in quanto non è stata avviata una ricerca storica specifica. Lo studio delle tradizioni è cominciato con la musica e la poesia. La danza è rimasta nell’ombra .Troviamo delle tracce molto importanti in una monografia del Pitrè “sonatori, balli e canti nuziali del popolo siciliano” del 1885 che scriveva:- uno o più sonatori di violino, di violoncello o di friscalettu (zufolo) si mettono a suonare in una stanza a pianterreno, sullo spianato di una casa, i più giovani della casa e del vicinato accorrono a ballare dove la Fasola e la Tarantella o la Puliciusa (Cefalù) dove il Tarascuni, la ‘Ngrisina, lu ‘Llannisi (l’olandese?) ,la Satariata, dove la Capona, lu Chiovu, lu Trasi e nesci e la Virdulidda, la Pituta, la Papariana, lu Lupulù (Ragalmuto, Menfi), la Ruggera, la Napulitana (S.Agata di Militello), lu Diavulicchio (Siculiana), lu Maniettu (minuetto) o qualche altro ballo. Ciascun pezzo da ballo è detto ballittu e ciascuna sonata, figuratamene caddozzu. Una sonata si paga un bajocco ( cent 4) o un soldo.
Pr’ogni sonata chi l’orvu vi sona
Pronti vi l’addumanna li du grana
Fra un cadduzzeddu tantu di fasola
E almeno cci zittissi bona grana
Cu la ruggera la testa vi stona
La smenna tutta la papariana
Ma la sacchetta si l’addubba bona
L’accoddu si lu fa pri na bimana.
La maggior parte di questi pezzi ballabili erano una volta accompagnati dal canto. Oggi non più. Come si può facilmente supporre, alcuni di essi devono essere stati importati da fuori in Sicilia o imitati sopra altri esteri. Il Villabianca parla di una “savochetta”, suono che si faceva “dal popolo a certa canzone la savochetta comechè stata inventata ed esercitata da un cameriere di casa Garsia del ramo dei marchesi di savochetta ma non sappiamo se si trattasse di canto-ballo ne possiamo stare a certe sue etimologie che sanno troppo dell’ingenuo. Il più curioso tra questi balli è forse quello che si dice comunemente lu Ruggeri o la Ruggera, quale si fa nel Messinese. Secondo la descrizione favorita da G.Grimi – Lo Giudice, il Ruggeri non serba il nome del benefico fondatore della nostra monarchia ne può dirsi che tragga principio dell’epoca normanna ma da Roggiù, per la maniera onde girano coi piedi gli attori, in tutto simile ad una ruota d’orologio. Canto, ballo e pantomima, il Ruggeri si fa da due uomini e due donne ad un tempo. I due uomini si alzano e al suono d’uno o più strumenti( violino, chitarra) fanno parecchi giri di fasola e con un inchino invitano ciascuna donna a far da compagna. Le due donne si collocano in modo che vengano alternati i sessi come nelle controddanze e continuano a ballare sino a quando gli strumenti non faccian sentir la musica del Ruggeri. A questa si fermano e l’uomo che si trova più vicino ai suonatori cominicia a cantare coll’accordo dei compagni, i primi due versi della sua canzone, battendo i piedi e muovendo il corpo secondo cadenza del suono. Cosa che fanno contemporaneamente anche gli altri. Quando egli ha terminato di ripetere per due volte le strofe, tutti fanno un movimento di rotazione da sinistra a destra e in questo modo al posto dell’uomo che cantò va a trovarsi la sua compagna, la quale ripete né più ne meno ciò che egli ha fatto. Cosi l’uno dopo l’altro fan tutti. E cantata che ognuno avrà per l’intiero la propria canzone tornando a ballare girando sempre da sinistra a destra.
Si legge da ”usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano” sempre del Pitrè che in occasione del carnevale si ballavano i balli della Tubiana, della Fasola, della Capona e del Mastro del Campo (gioco teatrale per rappresentare il famoso Bernardo Cabrera conte di Modica nell’assalto al castello di Solanto presso Palermo).
Descrive il ballo degli schiavi fatto dai Lazzari mascherati da schiavi . “Il piccolo tamburro, piffera e circhetto con sonaglie intorno, strumenti questi tutti e tre turchereschi… va ad intrecciarsi galantemente quell’africano ballo”.
E ancora parla del noto gioco-ballo carnevalesco detto delle Mamme Lucie in Palermo, che dei salti festivi in istrada di alcuni Lazzari… a suon di tamburelli, che son strumenti femminili, vi son dei giochi e delle danze con ridicolosi bei pantomimi.
“Non è altro il giuoco del Balla-virticchi che un ballo di mascherati pantomimi fatto a suon di tamburo da alcuni ragazzoni Lazzari nei giorni festivi di carnevale. Le loro maschere sono di pigmei, ma di pigmei tanto deformi, che orrore infringono, e fanno guasta la fantasia.
Questi tre balli vengono ricordati anche dal Villabianca fuori Palermo
Ma se per un vecchio canto riprodotto fedelmente sul nastro dalla viva voce di un contadino, o trascritto in precisa notazione musicale è facile rivivere e risuonare ormai per sempre, grazie all’opera dei benemeriti etnomusicologici, ben ardua la riproduzione per un ballo, anche se debitamente filmato. Altro è infatti cantare, se pur con un filo di voce, e altro danzare: assolo, e o coppia o in gruppo; in tondo o in fila. Di qui,dunque, l’enorme importanza che assume, nella storia di un popolo, la conservazione dei suoi balli tradizionali. Di qui, soprattutto, la vera missione di chi riesca a farli rivivere, tra noi e per noi, e quali furono nei tempi antichi quelli degli avi, di cui ci parlano ancora i poeti, e che ancora echeggiano in musiche famose. Di questi balli non sappiamo l’origine o l’autore. Ma questa oscurità è che porta il ballo ad essere popolare e quindi espressione di corpo e anima. Il ballo non può essere chiuso in un libro o ricordato come una viola appassita fra le sue pagine ma deve essere arte viva, arte immediata, arte di popolo. Esso è un patrimonio da salvare e il vero problema non è già quello delle sue fonti, ch’è del resto comune a tutte le tradizioni popolari, ma quello della sua conservazione. Il Problema specifico del folklore coreico riguarda i pericoli per la società stessa, che sono insiti nella progressiva scomparsa della danza popolare: l’adorazione, anzitutto, della novità incontrollata, e spesso diretta, quasi malignamente, contro il culto della tradizione, giudicato futuristicamente, se non proprio in modo dichiaratamente eversivo, relitto di stolte o futili usanze, scorie del passato,vecchi ceppi da dare al fuoco della vera civiltà. 
Sagra di San Biagio
A Camastra (Agrigento) si celebra il santo protettore dei cardatori, dei tessitori e dei suonatori, con una festa particolare. Ogni anno, a settembre, viene portato in chiesa un pugno di cereali che, dopo essere stati benedetti, vengono mescolati a quelli da semina, per propiziarsi un raccolto rigoglioso, e per le strade sfila un corteo di carri decorati, seguiti da una folla variopinta, in cui spiccano quattro gruppi di persone ed animali, che simboleggiano le quattro stagioni.
Durante la festa, inoltre, vengono distribuiti, a scopo apotropaico, piccoli pani speciali che ricordano, nella forma, parti malate e parti di corpo e si benedicono i ceri.

L'abballu de li diavuli
La domenica di Pasqua, a Prizzi (Palermo) si mette in scena un rosso carnevale demoniaco. Tutti vestiti di rosso, con lunghi denti da vampiro, i cosiddetti "diavuli" circondano il paese ed iniziano a percorrere turtte le strade alla ricerca delle loro vittime, che una volta prese vengono trascinate nell'inferno, l'osteria, dove per essere liberate devono offrire da bere a tutti.
La giornata si conclude con l'arrivo della Madonna, scortata da un corteo di angeli, che viene a liberare il paese dal Male. I diavoli allora fanno un ultimo tentativo di conquistare le anime distribuendo al pubblico i "cannateddi", dolcetti tradizionali.

Festa del Santissimo Crocifisso
Dal 23 al 25 agosto, a Castroreale (Messina), sull'estremità di un robusto palo lungo 15 metri, dipinto di nero e pieno di grossi chiodi, piantati ad intervalli regolari, viene montato un simulacro di Gesù Cristo in croce. Tramite un complicato sistema di leve e funi, il palo viene innalzato e fissato nel mezzo della piazza centrale del paese, dopo essere stato portato a spalla attraverso le vie del paese, utilizzando un difficile gioco di equilibri.

U fistinu
A Palermo, tra l'11 e il 15 luglio, ogni anno si tiene una delle più importanti feste della regione. La giornata è ricca di attrazioni, tra le quali spicca la sfilata di un carro allegorico sul quale suona una banda di musicisti, spandendo per le vie della città una melodia di festa. L'ultima sera dei festeggiamenti, inoltre, il cielo viene rischiarato da un maestoso spettacolo di fuochi d'artificio.
Altari di San Giuseppe
A Ramacca, vicino Catania, il 18 marzo vengono allestiti molti altari splendidamente addobbati con ogni sorta di specialità gastronomica locale. Il giorno dopo, il giorno della festa di San Giuseppe, le autorità del paese invitano tre cittadini, scelti tra i più bisognosi, che impersonificano San Giuseppe, la Madonna e Gesù, a gustare tutte le delicatezze. Ciò che non viene consumato viene poi messo all'asta, ed il ricavato viene devoluto per l'aiuto dei poveri.
 Dialetto siciliano
La conformazione geografica di isola, ha certamente permesso al dialetto siciliano di mantenersi lontano da influenze di confine. Il risultato è una certa omogeneità dei dialetti siciliani, che comunque si distinguono per alcuni tratti fondamentali.
Data la lunga e tortuosa storia della Sicilia, è difficile distinguere tutte le influenze linguistiche subite dalle diverse aree dell'isola, che comunque si può dividere in parte orientale e occidentale.

L'influenza latina nell'isola è stata molto forte, anche se piuttosto lenta e contrastata dalle lotte tra Roma e Cartagine. Lo strato della popolazione che aveva acquisito il latino, comunque, non lo perse mai, neanche con le dominazioni greche ed arabe, ma anzi lo rafforzò con diverse ondate di colonizzazione culturale.

E' così possibile rintracciare, nel siciliano, due diverse ondate di influenza latina. Una più arcaica, basata sul sistema fonetico latino, con le vocali finali pronunciate sempre in maniera chiara (non come negli altri dialetti italiani meridionali), ed una più influenzata da correnti bizantine in cui si distinguono tre nuovi caratteri. Si afferma la metafonia (cambio vocalico), tra Ragusa, Enna e Caltanissetta, per cui le vocali cambiano sotto l'influenza della "u" finale, come in "muortu" diverso dal femminile "morta", e "fierru" al plurale "ferra"; i gruppi consonantici "nd" e "mb" si assimilano in "nn" e "mm", "quannu" per "quando", ma questa innovazione non raggiunge Messina né Catania; e per ultimo, la "d" intervocalica diviene "r", come in "cririri", per "credere", o in "deci" per "dieci", questo elemento si è affermato soprattutto in provincia di Catania.
Anche la dominazione normanna ha lasciato il suo segno, contaminando il siciliano con alcuni elementi gallo-italici. Le tracce di quest'influenza si trovano nelle parole "badagghiari", sbadigliare; "vozzu" per "gozzo"; "dumani" per domani; comuni al siciliano e al toscano e completamente diverse dai corrispettivi calabresi.
Ma le compelsse vicende storiche della regione hanno lasciato tracce anche nel lessico siciliano, in cui è possibile trovare anche parole spagnole, come "criata" per serva; parole orientali, come "sceccu" per asino; francesismi, come "custurieri" per sarto, "racina" per una (fr. raisin).
Il siciliano si distingue quindi per molto vocaboli dalle altre lingue meridionali, ricodiamo, oltre agli esempi già citati, anche "animulu" per arcolaio; "tastari" per assaggiare; "scannari" per ammazzare; "sciaurari" per odorare. E ancora "picca" per poco; "cozzu" per poggio; "agnuni" per cantuccio; "crastu" per montone, etc.
Tra i vocaboli condivisi con la Calabria, troviamo invece "scurzuni" per serpe; "cattibo e cattiva" per vedovo e vedova; "lemmo" per catino.
I dialetti siciliani si possono quindi dividere in tre zone: siciliano occidentale, diviso tra area palermitana, trapanese e agrigentina; siciliano centrale, diviso tra le aree nisseno-ennese, agrigentina orientale e delle Madonie; e siciliano orientale, diviso in area siracusano-catanese, nord orientale, messinese e sud orientale.
 Proverbi siciliani
'U voi ci dici curnutu 'o sceccu
Il bue dice cornuto all'asino

Fai bene e scordalu, fai male e pensaci
Se fai bene, dimenticatene; se fai male, pensaci

Morsi 'u figghozzu, finìu 'u cumparatu
Morto il figlioccio, finito il comparatico

Cu' fa ligna a mala banna, 'a scirì 'ncoddu
Chi fa la legna in un brutto posto, deve portarla fuori spalla

L'omminu pp'a parola, 'u voi pp'e corna
L'uomo per la parola, il bue per le corna

Amicu ca m'a datu la castagna, ora m'a ddari 'u sucu di la vigna
Amico che mi hai le castagne, ora devi darmi il sugo della vigna

'U sceccu 'a potta, 'u sceccu sa mangia
l'asino la porta, l'asino se la mangia

Ti dissi lèviti, e ancora batti a cura
Ti ho detto togliti di torno (al cane), e ancora batti la coda

Cu' scecchi caccia e fimmini criri, facci di pararisu nun ni viri
Chi guida somari e crede alle donne, non vede faccia di paradiso

Ci dissi 'u papici 'a nuci: dammi tempu ca ti pèrciu
Disse il bruco alla noce: dammi tempo che ti perforo

Quannu l'amicu nun parra a prima vuci, voddiri ca 'u riscussu nun ci piaci
Quando l'amico non risponde a prima voce, significa che il discorso non gli piace

Cu' si cucca 'cche picciriddi, 'a matina si susi pisciatu
Chi va a letto con i bambini, al mattino si alza pisciato

Sìnnucu picciottu, paisi arruvinato
Sindaco giovane, paese rovinato

Cu mangia fa muddichi
Chi mangia fa briciole

Cu' futti futti, Diu pirduna a tutti
Chi frega frega, Dio perdona tutti

Picciotti e muli vonu stari suli
Giovani e muli vogliono stare soli

'A quattara ca va all'acqua, o si rumpi o si ciacca
La brocca che va a prendere l'acqua, o si rompe o si spacca

'Mbriachi e picciriddi, 'u Signuri aiuta
Ubriachi e bambini, il Signore li aiuta

'O cacatu 'u culu cci feti
A chi se l'è fatta addosso, puzza il sedere

Supra 'o vagnatu, cci chiovi
Sul bagnato, piove

I chiacchiri su' chiacchiri, ma 'a putiara voli i picciuli
Le chiacchiere sono chiacchiere, ma la bottegaia vuole i soldi

Ammatula ca t'allisci e fai cannola, 'u santu è di mammuru e nun sura
Inutile che ti imbelletti e ti fai i boccoli ai capelli, il santo è di marmo e non suda

Quannu 'u diavulu t'accarizza, voli l'arma
Quando il diavolo ti accarezza, vuole l'anima

Mettiti megghiu 'i tia e ammaccici i spisi
Mettiti con quelli migliori di te e fanne le spese

Se canta cùcchiti e se nun canta strìchiti
Se (la fortuna) canta, va' pure a dormire; se non canta (non ti è favorevole) puoi rotolarti per terra

Fimmina senza amuri è rosa senza oduri
Donna senza amore è una rosa senza odore

Càliti juncu ca passa la china
Incurvati giunco che passa la piena

Unni ci su campani, ci su bbuttani
Dove ci sono campane, ci sono puttane

Ognunu è patruni di pulizziarisi 'u culu c'un corpu di lupara
Ognuno è padrone di pulirsi il sedere con un colpo di lupara

Sunaturi di chitarra e piscaturi di cimetta, miatu la casa ca l'aspetta
Suonatori di chitarra e pescatori con la lenza, disgraziata quella casa che li aspetta

Cu' ha lingua passa 'u mari
Chi ha lingua, passa il mare

Tri sunu li putenti: 'u papa, 'u re e cu nun avi nenti - Tre sono i potenti: il papa, il re e chi non possiede niente
 Cucina Regionale
 Alcuni Esempi di prodott tipici siciliani
ARANCINI DI RISO
PASTA " 'N CACIATA "
SARDE A BECCAFICO
CAPONATA
CASSATA SICILIANA GELATA
 PASTA CHI SARDI
CANNOLI SICILIANI
SFINCI FRITTI
  
Lascari li 07.04.2006

Ricerca fatta dagli istruttori Rosanna e Vincenzo



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